La seconda, drammatica, ondata della pandemia da Covid-19 ha posto in secondo piano il dibattito sui possibili usi dei fondi europei per la ripresa.
È necessario ricordare, invece, che quello che viene chiamato “recovery fund” è stato denominato dalla Commissione Europea “Next generation EU”, una denominazione che, parafrasando De Gasperi, guarda alla prossima generazione e non alla prossima elezione.
A nostro parere, è utile continuare a parlare di uso alternativo di fondi dai quali dipende il futuro del nostro Paese mettendo al centro i due principali nodi da sciogliere: il primo riguarda le politiche di riduzione delle disuguaglianze, non già e non solo per senso di giustizia e per rispondere al dettato della nostra Costituzione (che sarebbero già sufficienti come argomenti), ma per stimolare una crescita economica stabile e duratura.
Gli studi di Stiglitz a livello internazionale, di Alesina e Perotti in Italia e le evidenze empiriche riportate da Francisco Ferreira e dalla Banca Mondiale, dimostrano in modo abbastanza chiaro la correlazione negativa tra disuguaglianza e crescita economica. Questa correlazione risulta ancora più forte a seguito di uno shock economico quale sicuramente è la pandemia di Sars-Cov 2.
I motivi sono intuitivi: una forte disuguaglianza riduce le opportunità di una parte della popolazione e impedisce di esprimere a pieno il potenziale economico; aumenta la possibilità di tensioni sociali, episodi di violenza e instabilità anche politica e quindi disincentiva gli investimenti privati interni e attrae meno capitali dall’estero; favorisce un’allocazione inefficiente delle risorse; aumenta il potere delle lobby che cercano di accaparrarsi i fondi.
Quelli elencati sono tutti buoni motivi per avviare politiche che riducono la disuguaglianza sociale ed economica in un Paese che ha visto, come in tutto il mondo, aumentare gli squilibri. Per fare ciò è necessario investire, ad esempio, in formazione generalizzata che aumenti il pieno dispiegarsi delle potenzialità individuali, intervenire per la riduzione dei gap di genere, stimolare la creazione di posti di lavoro stabili e riprendere il cammino verso una legislazione del lavoro che garantisca i diritti sociali dei lavoratori.
Perché ciò si realizzi, però, la precondizione è che lo Stato intervenga direttamente affinché, come prevede l’articolo 41 della Costituzione, vi sia un indirizzo a fini sociali dell’iniziativa economica pubblica e privata.
E qui nasce il secondo problema: la sempre più invocata concordia politica, che dovrebbe sfociare in un indirizzo quasi unanimistico delle scelte.
Molti commentatori auspicano un governo di larghe intese o comunque una cabina di regia unica e condivisa tra tutte le forze politiche.
Ma siamo certi che uno scenario di questo tipo non porterebbe a politiche al ribasso che guarderebbero alle prossime elezioni anziché alla prossima generazione?
Come si può pensare che partiti politici conservatori, che legittimamente rivendicano politiche fiscali a favore della parte più ricca del Paese, possano accettare un intervento pubblico nell’economia che riduca le disuguaglianze? Chi sostiene ancora l’efficacia della curva di Laffer e l’abbassamento dell’imposizione a carico dei più ricchi, certo che alla restante parte del Paese la ricchezza arriverebbe “per colatura”, accetterebbe mai di cambiare la propria visione? Allo stesso modo, riguardo al lavoro, è pensabile che chi sostiene la “deregulation” del mercato del lavoro e la funzione salvifica della “mano invisibile” sui mercati possa di colpo cambiare opinione? È auspicabile un compromesso tra due posizioni antitetiche? Non è molto meglio immaginare scelte nette rispetto alle quali i decisori politici si assumono piene responsabilità nei confronti del Paese?
Questi sono i nodi da sciogliere se vogliamo incamminarci verso una “policy for the new generation”.